• olio su tavola cm.30,5 x 23
    olio su tavola cm.30,5 x 23

Giovanni Boccaccio - Novella CI

Novella CI.

Messer Guiduccio de' Contrati cade malato. Essendo amorosamente curato dalla moglie prestamente guarisce. Per alcune bisogne si reca in un suo podere fuori città ma tosto inavvertitamente ritorna, Avendo trovato la donna insieme con lo suo amante egli molto argutamente dice di esser stato sanato da un vaccino.<

La novella di Dioneo era finita, ed assai le donne, chi d'una parte e chi dall'altra tirando, chi biasimando una cosa e chi un'altra intorno ad essa lodandone, n'avevan favellato; quando il re, levato il viso verso il cielo e veggendo che il sole era già basso all'ora di vespro, senza da seder levarsi, così cominciò a parlare: - Adorne donne, in questi giorni così piacevolmente trascorsi, molto abbiamo narrato e molto abbiamo udito narrare. Ma questa novella del Marchese di Saluzzo, testé narrata dal nobile Dioneo, essendo la decima del decimo giorno, secondo quanto nel principio fu tra noi stabilito, ancor avria da essere stata l'ultima. Senonché, visto che l'ora di cena, quantunque prossima, non è ancora suonata, mosso dal desiderio di protrarre quanto più sia possibile questo gradevolissimo convegno, avvalendomi dell'autorità del mio rango, che per oggi è quello di re, io vo' farmi alquanto tiranno e sforzarvi, se vi piace, d'ascoltare un altro ragionamento che in questo punto mi è venuto alla mente.
Molto favorevolmente fu accolta da tutti la proposta di Panfilo e tanto più giunse gradita in quanto del tutto era inaspettata. E perciò, battendo le mani e già ridendo di quello che avrebbero di lì a poco udito, nuovamente accomodandosi si disposero a seguire il racconto. E Panfilo, fattosi improvvisamente grave, così incominciò: - In questi passati giorni molto abbiamo ragionato de' casi che agli uomini e alle donne procurano le passioni: l'amore, la gelosia, l'ira, l'orgoglio, lo sdegno... tutti sentimenti i quali, per il potere che hanno di condurci talvolta ad eccessi, noi stessi siamo soliti chiamare "ciechi". E invece mai da parte nostra si è favellato di quella ragionevolezza della quale pure ci lusinghiamo d'essere impastati e la quale, per essere occhiuta, ci fa spesse volte, e fortunatamente, temperare gli esiti de' nostri smodati affetti. Cosicché chi avesse sentito le nostre cento novelle senza aver prima conosciuto la natura umana si farebbe di noi uomini un'idea altrettanto fallace di quella che del mondo si farebbe chi lo vedesse soltanto di notte e non di giorno. E perciò, perché sia messa in convenevole luce anche questa bella dote che Dio ci ha dato, ossia quella della ragione, vi voglio narrare ciò che accadde or non sono molti anni nella nobile e ricca città di Siena a un uomo che avea nome Guiduccio de' Contrati ma che tutti, per la ragione che tosto diremo, conosceano con il soprannome di Giornemmezzo. Avea questi, ai tempi in cui era giovane e quantunque fosse di distinta e coltivata famiglia, trascorso alcun tempo nella crapula più sfrenata frequentando gente di malaffare e dissipando senza ritegno gran quantità di denari nelle taverne e nei bordelli. E finalmente un giorno, venendo con asprezza biasimato da un altro giovane, suo buon amico, a cagione di quella sua vita dissoluta, accadde che in un eccesso d'ira, e forse con la mente resa torpida dai fumi del vino che fino a poco prima avea abbondantemente bevuto, avesse estratto un pugnale e d'un sol colpo l'avesse morto. Per il quale delitto egli fu tosto costretto in catene e condannato a molti anni di carcere dai magistrati della città.
Conciosiacosaché trovandosi nella più miserevole delle condizioni in cui un uomo possa mai trovarsi, quella cioè d'esser privato della libertà, fu colto da sincero pentimento e parendogli puranco leggiere le pene degli uomini al confronto del suo stesso rimorso, molto dolendosi e piangendo per la morte del caro compagno ch'egli avea così ingiustamente ucciso, fece voto che mai più da lì in avanti avrebbe fatto alcunché, fosse pure cosa di piccolissimo momento, senza averci prima pensato per almeno un giorno e mezzo.
Per sua buona sorte, trascorso un convenevole tempo, avendo la di lui famiglia, che come si disse era assai facoltosa, fatto generosa donazione a chi di dovere, Guiduccio fu graziato e finalmente messo fuori. Mai, tuttavia, per il resto della vita venne meno alla sua promessa. E così se per avventura un giorno gli pungea vaghezza di mangiare un uovo egli si rendea al mercato e si informava sul prezzo. Indi tornava a casa e soltanto il giorno di poi, avendoci per trentasei ore minuziosamente ragionato, tornava per comprarlo.
Non era passato guari tempo dagli accadimenti di cui prima abbiamo narrato quando Guiduccio, come colui che avea messo la testa a partito, pensò fosse arrivato il momento di prender moglie. Conciosiacosaché, messi in giro gli occhi, li fermò alla fine su di una ancor giovine vedova, a nome Francesca, la quale avea una figloletta bambina di forse quattro o cinque anni che nomata era Leonora. Ma giustamente parendogli che metter su famiglia non fosse come comperar un uovo volle pensarci un po' più a lungo, e avendo compiutamente ragionato sul pro e il contro, l'annesso e il connesso, la forma e la sostanza, da ultimo finì con lo sposare la piccola Leonora che nel lasso di tutti i suoi ragionamenti avea raggiunto l'età di anni ventidue.
La sposa era assai bella nel sembiante e a molti giovani della città che la sentiano lietamente cantare nel disbrigare le faccende di casa e che la vedeano ogni tanto affacciarsi alle finestre con le gote imporporate e i bei capelli d'oro a l'aura sparsi, parea ch'ella fosse sprecata fra le braccia di un vecchio di quasi sessant'anni qual era ormai Guiduccio. E ciò sopratutti parea a un nobil giovane di nome Fabricio il quale, a furia di passare e ripassare per la via e a furia di sentire e di vedere, s'era perdutamente di lei innamorato tanto che altro non potea pensare il di' ne' la notte se non al modo in cui avrebbe potuto introdursi in quella casa e appieno manifestare alla donna il suo amore.
Ora dovete sapere che Guiduccio avea fra le altre cose un poderetto fuori città nel quale era sollecito recarsi due o tre giorni ogni settimana onde curar da vicino i suoi affari. E ciò Fabricio l'avea ben visto e saputo, ma per quante volte avesse tentato di profittarne, ora fingendosi parente alla lontana, ora latore di urgenti missive, ora idraulico, mai ne avea potuto trar vantaggio per il fatto che sempre gli era stato opposto da qualche fantesca: "La mia signora ha detto di tornare quando ci sarà il padrone!". La qual cosa, come sempre avviene, lungi dal distogliere i pensieri di Fabricio dalla donna che tanta onestà ostentava, sempre più attizzava il fuoco nel già focoso giovane, il quale oramai aveva perso il sonno, rifiutava il cibo e, lontano da ogni compagnia, null'altro s'era ridotto a fare se non passare e ripassare, smagrito e come dissennato, sotto le finestre della ignara Leonora con la sola speranza di vederla per qualche fuggevole istante.
Era ridotto a questo punto lo sventurato amante quando avvenne che Guiduccio cadde malato di una maligna influenza ed essendo da più giorni fra la vita e la morte con la febbre altissima e dolori per tutte le ossa parea che nessun medico, a ciò consultato, e nessuna cura o specifico potessero sanarlo. In questi frangenti donna Leonora tutti i giorni e le notti senza riposo passava al suo capezzale amorosamente vegliandolo e, dato che altro fare non potea, rinnovava continuamente le pezze bagnate sulla di lui fronte con l'intento di dargli almeno un po' di ristoro. Ma la febbre perdurando ed essendo alla fine Guiduccio ridotto al lumicino per il gran sudare e per il gran cavar di sangue che i medici gli aveano fatto, ormai disperava di rivederlo in salute quando improvvisamente si sparse per la città la novella che un gran dottore della scuola di Salerno, specialmente versato nella cura delle febbri ostinate, era di passaggio per Siena sulla strada di andare a curare i re di Francia e di Polonia. Inutile dire, gentili giovani e amorose donne, che il personaggio altri non era se non Fabricio il quale, ad arte, per i suoi propri disegni, avea messo in giro la fola. E infatti donna Leonora non sel fece dire la seconda volta e senza por tempo in mezzo mandò le fantesche a priegare questo luminare affinchè volesse, indugiando nel suo viaggio, gettare la luce della sua scienza anche sul povero Guiduccio.
Fu così che finalmente Fabricio, opportunamente paludato e con un grosso libro pieno di parole latine sotto il braccio, potè varcare la sospiratissima soglia confidando che adesso, essendo stato fatto il primo e più difficile passo, sarebbe dipeso solo da lui usare abilità e belle maniere in modo da fare i successivi e portare la riottosa donna ad accondiscendere ai suoi desideri. La quale donna per l'intanto lì sull'uscio di casa, avendogli preso entrambe le mani e basciandogliele e bagnandogliele di molte lagrime, non potea ristarsi dal ringraziarlo per aver cosi benignamente accolto i suoi prieghi facendo tuttavia aspettare i suoi regali clienti.
Appena fu alla presenza del malato, Fabricio, come più volte avea visto fare dai medici, cominciò a tastarlo e a palparlo qua e là, indi gli pose l'orecchio sullo sterno dove si udiva appena il battito del cuore e infine, dopo aver fatto finta di cercare e aver letto sottovoce alcune frasi del suo libro, che era l'Ars amandi di Ovidio, sollevandosi e rivolgendosi un po' a se stesso e un po' agli altri, esclamò: "In verità non vidi mai un malato in tale estremo stato di salute. Per esser morto a tutti gli effetti mi pare gli manchi solo d'esser seppellito e tuttavia, Deo adiuvante e con l'ausilio della poca scienza che mi è dato di avere, tenterò di riportarlo tra i vivi", e rivolto a madonna Leonora: "Egli tuttavia avendo bisogno di cure assidue e continue, io vi chiedo, signora, di farmi approntare una cameretta nella vostra casa ond'io ne' il giorno ne' la notte lo perda di vista e possa prestamente intervenire in caso di necessitade". A Leonora tutto ciò non parea vero e subito diede ordine alle ancelle di preparare per Fabricio la più bella e confortevole stanza del palazzo e di servirlo in tutto ciò di cui da ora in avanti avesse bisogno o desiderio. Nel tempo che seguì Fabricio incominciò a propinare al malato le sue medicine: intrugli, pozioni, infusi di erbe che lui stesso faceva dentro la sua stanza usando ingredienti a casaccio di quelli tuttavia che, se non aveano il potere di curarlo neanche potessero farlo star peggio e, cosa che più confaceva a' suoi disegni, cominciò a vegliarlo per lunghe ore seduto accanto a Leonora. E ora carezzandole le guance per asciugarle le lagrime, ora sfiorandole la mano, ora tenendogliela e basciandogliela per consolarla, in capo a tre dì lui fu condotto al punto di non star più nella pelle ma anche lei, a furia di carezza e sfiora e struscia e liscia e bussa, siccome non era fatta ne' di legno ne' di sasso, ché anzi era giovane e sana, cominciò a sentirsi alterare il respiro e a provare, non sapendo perché, un certo qual turbamento.
E finalmente un giorno, mentre sul primo pomeriggio stavano nella penombra dell'anticamera, Fabricio staccò un liuto dalla parete e, dopo aver alquanto tastato quasi svogliatamente le corde, incominciò cosi dolcissimamente a cantare:

Deh, vieni alla finestra, o mio tesoro,
deh, vieni a consolare il pianto mio:
se neghi a me di dar qualche ristoro
davanti agli occhi tuoi morir vogl'io.
Tu ch'hai la bocca dolce più che il miele,
tu che il zucchero porti in mezzo al core,
non esser gioia mia con me crudele,
lasciati almen veder, mio bell'amore.

Quasi a ogni parola della canzone donna Leonora cambiava di colore e sentendo ora la fiamma ora il gelo invaderle le membra, ora come il foco si facea rossa e ora scolorava bianca come la neve. E perché prima le era sembrato di venir meno e perché dopo tutt'a un tratto avea sentito nuove linfe e nuovi umori e nuovi spirti rincorrersi, convergere e precipitarsi in quelle parti del corpo che più le pareano aver bisogno di carezze al fine senza dir motto alcuno, prese per mano Fabricio, lo condusse nella sua stanza e lì, cacciato e ricacciato il diavolo nel ninferno, entrambi assaporarorono e riassaporarono le mille beatitudini del paradiso.
Passarono assai giorni in cui i due amanti ebbero modo di prender piacere l'uno dell'altra ma venne il momento in cui, non so dire se per un naturale corso degli eventi o per merito magari di qualche erba sconosciuta alla medicina che Fabricio avea messo a caso nei suoi beveroni fatto sta che Guiduccio cominciò a star meglio e alla fine guarì. Conciosiacosaché, girando il marito per casa, i due amanti non ebbero più agio di ritrovarsi in intimità ed anzi, trascorso un convenevole tempo, non essendoci più necessità di trattenerlo, Guiduccio dopo averlo lungamente ringraziato e profumatamente pagato diede licenza a Fabricio di andarsene. Il quale Fabricio assai di malavoglia il fece non senza prima essersi accordato con Leonora per ritrovarsi insieme ogni qual volta il marito si fosse assentato. E infatti una mattina, avendo ritrovato in pieno le forze, Guiduccio disse alla moglie: "Per troppo tempo, a causa della malattia, ho trascurato i miei uffici. Ma giacché è l'occhio del padrone che ingrassa il cavallo è tempo ch'io vada al podere a vedere come stanno le cose", onde salito sul cavallo, e avendola con affetto salutata, se ne andò per i fatti suoi.
Era giunto quasi a mezza strada quando si ricordò di aver dimenticato certe carte che dovea dare al fattore e siccome la cosa non potea essere oltre rimandata decise di voltare il cavallo per tornar sui suoi passi. Giunse a casa ch'era ormai sull'ora del pomeriggio ed entrato che fu, subito sentì risonare per le volte certi sospiri e gemiti e gridolini che certo non erano di chi ricami o faccia la calza. Onde avendo piano piano socchiuso l'uscio della camera per gettarvi dentro l'occhio, vi vide il medico che, dopo aver assai bene curato il marito, adesso curava ancor meglio a più non posso la moglie.
La prima tentazione fu di afferrare una spada e trafiggerli entrambi lì ignudi e avviticchiati com'erano ma, pur nel dolore e nella rabbia, rammentatosi degli esiti luttuosi che avea avuto un tempo la sua sconsideratezza e del voto che perciò avea fatto di sempre riflettere prima di agire, si ritenne, prese le scartoffie che gli servieno e silenzioso com'era venuto se ne tornò sulla strada del suo podere.
E lì, cavalcando e dentro di sé ragionando, siccome era vecchio sì ma non ancora coglione, capì come stavano le cose e si disse: "Sono giovani entrambi, entrambi belli e sani: qual maraviglia che abbiano preso fuoco l'uno dell'altra? Di che incolparli? Anzi, facilmente e senza rischio avrieno potuto, anziché curarmi con medicine, propinarmi un tossico e mandarmi al Creatore rimanendosi a godere oltre che di se stessi anche dei miei averi. Se ciò non hanno fatto vuol dire che lui è un giovane dabbene e che lei un po' di bene mi vuole. Che cosa di più e di meglio potrei sperare vecchio come sono?". E avendo così ragionato decise di far come se niente fosse stato e di niente cambiare della propria e dell'altrui condotta. Ma da quel giorno, a chi gli chiedeva che cosa l'avesse guarito rispondeva: "Un vaccino", intendendo con ciò che la portentosa medicina in uno gli avea dato la salute e le corna.